TUILI. Il suo maestro - il grande Aurelio Porcu di Villaputzu - parlava di lui come del migliore dei suoi allievi, ma Franco Melis di Tuili, oggi maestro di launeddas a sua volta, si schermisce: «Troppo buono, lo zio Aurelio: mi apprezzava e di questo gli sarò sempre grato». Lo incontriamo nel suo paese, a Villa Asquer, sede del museo degli strumenti musicali e della scuola di launeddas che Franco dirige. Farlo parlare non è facile: uomo di poche parole, ha il bel dono della sintesi, di questi tempi assai raro. Quella che segue è la sua storia: a grandi linee, forse, ma non per questo meno significativa. «Ho iniziato con i sonus de canna a metà degli anni Settanta, avevo quindici anni e di musica sapevo pochissimo, anzi quasi nulla. Nell'oratorio della nostra parrocchia c'era don Tonino Meloni, amico del fisarmonicista Galdino Musa: insieme avevano intenzione di creare il gruppo folk, io volevo imparare a ballare il ballo sardo e sono andato subito da loro. Mio padre mi chiese: perché non impari a suonare le launeddas? Io non sapevo bene neppure che cosa fossero. - Com'è avvenuta la conoscenza dello strumento magico? «Dopo due mesi, per la festa di Sant'Isidoro, non vedevo l'ora di vedere il suonatore. Era un uomo bravissimo ma autodidatta. Iniziai a suonare, dopo aver imparato come si gestisce il fiato». - Da dove si parte? «Dalla più piccola delle tre canne delle launeddas, la cosiddetta mancosedda. Ma basta anche una cannuccia da bibita. Dopo circa un anno il maestro Galdino Musa mi domandò: dove vorresti andare per imparare meglio? Io non conoscevo nessun altro maestro». - Che successe allora? «Galdino e padre Tonino Melis mi portarono a Villaputzu da Aurelio Porcu, che chiese di parlare con mio padre. Così dopo qualche giorno andai a vivere dallo zio Aurelio: pagavo ottantamila lire mensili, vitto e alloggio inclusi, allora si usava così». - In che cosa consisteva l'apprendistato? «Di mattina aiutavo il maestro in campagna, aveva una vigna e un agrumeto. Con lui ho imparato anche a fare gli innesti: vite, ulivo, mandorlo. Il pomeriggio e la sera erano dedicati alla musica». - Con il maestro Aurelio iniziavi da? «Da zero. Le cose apprese da ragazzo in paese erano sbagliate. Scarescididdas totus, mi disse Aurelio Porcu: dimenticale tutte, ti insegno io come si fa». - C'è un ordine nell'apprendimento dei balli? «Io ho seguito il mio maestro iniziando dal punto d'organo: le mie prime launeddas erano fatte proprio per quel ballo. Poi sono passato al fioràssiu, mediana pipia, viuda bagadia, mediana asciutta, zampogna». - Quanto tempo sei stato da lui? «Per circa un anno, poi sono dovuto rientrare a Tuili: mio padre stava invecchiando e da solo non ce la faceva, nel lavoro dei campi». - Hai interrotto la scuola? «Costretto dalla necessità sono rimasto per due anni senza maestro, mi esercitavo per conto mio sulla base degli insegnamenti dello zio Aurelio. Per un breve periodo ho anche frequentato la scuola di un altro grande, Luigi Lai di San Vito. Ma aveva troppi impegni e non poteva seguirmi. Ho dovuto attendere la maggiore età». - Che cosa vuoi dire? «A diciotto anni ho preso la patente e la macchina. Non vedevo l'ora che arrivasse la domenica per scappare a Villaputzu dal maestro Aurelio. Tutte le domeniche, per tre anni di seguito, mai un'assenza, sono andato da lui. Ho anche imparato a costruirle, le launeddas». - Per le canne come facevi? «Nelle campagne di Tuili nascono e crescono le canne migliori. Venivano tutti qui, perfino dai paesi del Sarrabus: in quella zona cresce solo la canna adatta a su tumbu, la più grande delle canne strumentali, quella fondamentale». - Oggi, con i tuoi allievi, quanto tempo ti occorre per una formazione completa? «In media tre anni, anche se non si finisce mai di apprendere. Se l'allievo è pigro occorre più tempo, se ha passione vera e si impegna impara sicuramente prima». - Come si è evoluto il rapporto del pubblico con le launeddas? «È cambiato in peggio, molto peggio. Una volta una suonata con lo strumento antico era un vero e proprio spettacolo, a livello di partecipazione popolare». - Oggi invece? «Ballano in pochi. La figura del suonatore non è più considerata come una volta». - Possibile? «Ci salviamo con le suonate nelle processioni e nelle messe, la parte musicale delle cerimonie religiose. Nella dimensione della etnomusicologia invece non c'è dubbio: le launeddas fanno registrare un grande interesse, addirittura in crescita». - La gente preferisce altri strumenti? «La realtà delle feste paesane segnala un boom dell'organetto, che ha poco più di un secolo mentre le launeddas sono antiche di tre millenni e oltre». - Significa che vi stanno rubando il mestiere? «Più o meno. Ogni gruppo ha lo strumento anche per il ballo sardo, fanno tutto loro. Solo pochi paesi affezionati, come Collinas, non rinunciano ai sonus de canna». - Come va la scuola a Villa Asquer? «Abbiamo iniziato dieci anni fa, oggi ho sette-otto allievi: sono già in
grado di suonare nelle processioni». - Tutti di Tuili? «Neppure uno del mio paese: iniziano a frequentare e subito dopo si spaventano per le difficoltà. Gli allievi vengono da Collinas, Nurri, Sardara, Serrenti e Turri. Nel paese di Franco Madau sicuramente questa non è una bella notizia».
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